Roberto Moro

Cronache di Manhattan II

L'iconografia di questo articolo è tratta dal ciclo di opere pittoriche "le tauromachie" di Michele Cannaò messe gentilmente a disposizione di Storia in network dall'autore

Terrorismo batteriologico e intossicazione mediatica - La guerra, il fronte, le prime vittorie -
Il fantasma dell'alterità e lo scontro tra civiltà - Dal medioevo senza ritorno -
Rinascite, riforme, rivoluzione… metamorfosi



Il direttore di Storia in Network mi comunica che le "le cronache di Manhattan" pubblicate ne La cattedra hanno registrato un considerevole interesse da parte dei lettori della nostra rivista; ne ho personalmente un effettivo e positivo riscontro in seguito alle visite sul sito lastoria.org. Ringrazio i lettori e ne concludo che storia e attualità, tempo breve e narrazione istantanea, cronaca e comunicazione hanno ormai valicato i loro reciproci confini in una sorta di globalizzazione governata dai media (cioè eterodiretta) che predefinsce in modo rigoroso ogni nostro consumo e l'insieme delle ragioni stesse del comunicare; predefinisce i contenuti, le emozioni, la trama stessa di ogni possibile racconto. La storia si scrive "qui e ora", di minuto in minuto, di comunicato in comunicato, di servizio in servizio, di articolo in articolo (anche su questa rivista) in una sorta di battaglia campale (che è forse la vera guerra di questo nuovo secolo) tra eventi in lotta per la loro momentanea quanto casuale sopravvivenza. Come sottrarsi all'Evento che domina a tutto campo il sistema della comunicazione storica e politica: la guerra mondiale del XXI secolo? L'onda d'urto della guerra in Afghanistan non si è ancora spento; anzi, nuove varianti, nuovi eventi nell'Evento, tengono in vita e gonfiano oltre ogni misura quello che deve essere il punto di partenza della storia di tutto un secolo. A farsi prendere dalla tempesta mediatica in atto che confonde fatti veri e immaginazione creativa, propaganda e analisi politica, cronaca spicciola e ricerca storica, si ha l'impressione che ciò di cui stiamo, volenti o nolenti, parlando non è del nostro presente, ma del nostro futuro: le origini dell'Evento appaiono a tutti irrilevanti rispetto ai suoi esiti futuri. La storia ha invertito il suo corso, ci incalza e va ormai dal presente al futuro. Come resistere a questa deriva? Quale altra storia scrivere se non quella che tutte le mattine del mondo si mette in moto a partire dai media e che tutto assorbe (storia antica, moderna contemporanea, storia del futuro) in una storia magari istantanea, ma davvero universale?
I lettori mi scuseranno dunque se ritorno al mio diario interrotto il 26 settembre (una data ormai remota vista l'accelerazione e l'inflazione degli eventi) per riproporre alcune riflessioni nella speranza di uscire dal coro, di offrire una pausa, di andare magari un poco più in là…
Nell'affrontare questo tema ormai inflazionato, chi vive in Italia perlomeno un vantaggio ce l'ha. Privo di una reale politica estera (se non quella ovvia di una passiva fedeltà Atlantica e di una ipocrita vocazione europea), eccentrico rispetto all'Europa, impegnato in una incerta (e frustrata) politica mediterranea e filoaraba che non si è mai realizzata, dotato di una classe politica mediocre ma loquace fino allo schiamazzo, l'Italia, ancor più di altri paesi, di questa guerra sa poco o niente. In generale nessuno ne sa naiente (il governo USA a imposto una rigorosa censura e comprato tutti i diritti delle emittenti sull'Afghanistan), ma almeno noi sappiamo anche di non saperlo. Sappiamo che tutto ci passa sopra la testa come da secoli, poco o nulla ci coinvolge e sconvolge: senza troppe tragedie aspettiamo che la nottata passi.
Come uscire dalla ossessione mediatica che al pari della droga crea assuefazione, intossicazione e poi progressiva narcosi? Che dire , che fare dunque per spezzare la spirale dell'attualità e vincere la velocità del tempo dell'informazione "a perdere"? Gli argomenti naturalmente non mancano. Proviamo a parlarne insieme, a ragionarci su.


Concludevo le mie riflessioni nel precedente articolo con la considerazione che con questo Evento (molto più che una guerra) abbiamo davvero voltato pagina, cambiato secolo. Avanzavo inoltre l'ipotesi che Bush, al pari di Gorbaciov, si presentava e si presenta come il liquidatore della potenza americana nel "mondo nuovo" e nel nuovo secolo. I fatti, per come vengono raccontati, mi sembra che confermino questa intuizione.
La guerra adesso c'è ormai da un mese. Operazione di pulizia, bombardamenti, mobilitazione delle alleanze, formidabile campagna di stampa e propaganda, investimenti, inquietudine generale, stato di crisi e ristagno economico (economia di guerra), accaparratori e speculatori, servizi segreti in azione, innocenti che muoiono, eroi che non nascono. E' una guerra vera del "mondo nuovo" come quelle in Iraq e Iugoslavia (e molte altre che non hanno fatto audience in questi ultimi tre decenni di preparazione dell'Evento finale) e anche il suo esito può sembrare scontato. Un nuovo governo (che è in corso di preparazione a livello internazionale), sostituirà quello Telebano, farà le sue purghe e darà il via all'inevitabile processo di ricostruzione (modernizzazione e democratizzazione) cioè gestirà i fondi per lo sviluppo-risarcimento con l'immancabile ausilio di banche svizzere e paradisi fiscali. O almeno così si auspica. Questa procedura però qualche significativa variante la offre rispetto ai clichet precedenti: in primo luogo l'Alleanza del nord (che ricorda molto il Deserto dei tartari del nostro Buzzati) non è un movimento di popolo (o di classi e ceti sociali), ma una insieme di gruppi tribali e di etnie tra loro in concorrenza; in secondo luogo la base del nuovo assetto politico dovrebbe essere offerta dal ripristino di una millenaria assemblea tribale (una sorta di Stati generali senza stati, di dieta medioevale senza rappresentanti degli ordini) moderata da un monarca (84 anni!) in esilio da circa trenta. Siamo molti lontani dai canoni e dai paradigmi della storia europea e moderna; precedenti non ce ne sono in questo processo storico che i media e gli storici cercano di interpretare.
Anche il fronte di questa guerra è davvero inedito rispetto ai modelli del più recente passato e di tutto il passato. Dichiarata contro il "terrorismo internazionale" (che però non si riesce a definire né concettualmente, né politologicamente) questa guerra planetaria segna il prevalere del fronte interno su quello esterno. Negli USA, sconvolti dalla minaccia dell'antrace e dalla caccia ai terroristi, sta passando una legislazione sulla sicurezza e sul controllo che è palesemente in contrasto con la tradizione culturale del paese; in Europa si manifesta una corrente bellicista che, se non prelude al riarmo, è certo alternativa alle opzioni di sviluppo politico e democratico dell'Unione; in Medio oriente si è aperto un fronte interno terrorista tra Ebrei e Palestinesi che l'ordine mondiale non è più in grado di controllare e che mette in crisi gli equilibri stessi dell'alleanza e delle "forze del bene"; in Asia (Pakistan, India, Malesia, Cina persino) questa guerra la si sta già combattendo più sul fronte interno che su quello esterno. Questi elementi di novità divengono addirittura sorprendenti se si mette in conto il fatto che questa guerra mondiale ha identificato il suo nemico in una banda di circa tredicimila psicopatici al soldo di un miliardario clandestino. Del nemico sappiamo ormai tutto (almeno così ci si fa credere): consistenza, dislocazione, armamenti, finanziamenti, tipo di addestramento e tattica; sappiamo insomma quanto basta per sapere che la sistematica distruzione di Kabul e di altre città (in realtà già cumuli di macerie prima ancora di essere bombardati), l'eventuale infiltrazione di corpi speciali, la distribuzione via etere di pranzi preconfezionati e protesi ortopediche, non hanno nulla a che vedere con la tipologia della guerra tradizionale. I primi ad affermarlo sono i militari che ora denunciano la imprevista novità dell'evento, l'impreparazione e l'inadeguatezza dei mezzi e delle vecchie opzioni strategiche. Il fronte è invisibile, il nemico improbabile e la sua rappresentazione in termini di media, di racconto appare impossibile (si direbbe quasi che ce lo siamo inventato).
Probabilmente è una guerra di spie, infiltrati, voltagabbana, ricattatori, insomma una guerra tra organizzazioni (criminali) burocratiche di modello aziendale. Probabilmente tutto quello che sta accadendo e un casus belli per la redistribuzione del potere mondiale tra nuovi soggetti. Probabilmente… Ma su questo punto torneremo dopo, per ora quello su cui val la pena di riflettere è che proprio questa inquietudine generale, questo clima di confusa incertezza nei giudizi e nelle procedure da seguire dilata il fronte interno sino al nostro fronte interiore, sin dentro di noi, nel profondo della nostra coscienza. I perché aumentano, i dubbi anche, la diffidenza verso ogni tipo di informazione viene vinta solo da uno stadio di crescente narcosi e intossicazione mediatica.
Comunque sia, alla luce di questi elementi di novità le prime vittorie, è doloroso dirlo, vanno attribuite al nemico. Credo che su questo e a questo punto del racconto possiamo essere tutti d'accordo. In primo luogo OLB (come bin Laden viene burocraticamente chiamato in codice) e i suoi hanno conseguito e mantengono una audience "storica": si parla e si scrive più di loro di quanto si sia mai fatto di un miracolo, di una grande scoperta scientifica, di un nuovo detersivo o modello automobilistico. Tutto il mondo deve confrontarsi con loro: abbiamo dovuto ascoltarli e siamo costretti a subirli quotidianamente; e c'è da augurarsi che altre minoranze ideologico-religiose o etniche o politiche non ne seguano l'esempio per conquistare il sistema delle comunicazioni mondiali con nuovi colpi di mano. In secondo luogo un nucleo sparuto di criminali, un capitano di ventura e una banda di mercenari hanno suscitato, non già una operazione di polizia, ma una vera guerra mondiale e messo in crisi l'assetto di potere degli Stati Uniti d'America. Vengono poi giudicati responsabili della recessione mondiale e, sul piano militare, sono tutt'altro che sconfitti: per ora non hanno perso una battaglia perché ancora non si è combattuto, ma l'ipotesi di una cattura di OLB e dei vertici della sua organizzazione pare accantonata. Infine, quel che più conta, i Talebani hanno raccolto e stanno raccogliendo consensi nel mondo (e non solo quello islamico) e tentano di candidarsi come tutori degli oppressi del "mondo nuovo". Se vi è un dispiegarsi di alleanze contro OLB vi è anche un moto, forse appena visibile ma non meno importante, verso un mondo antidiluviano e tenebroso che si regge solo sulla forza di una cieca intolleranza paranoidea. Insomma per ora questi nemici-fantasma stanno scrivendo la storia, la nostra storia. Sono loro che tengono banco. E c'è di più, molto di più.

Non solo i nostri media hanno dovuto prendere atto, e quotidianamente ce lo mostrano, che questa guerra è anche e forse soprattutto il sintomo della nostre contraddizioni e di una politica improvvisata quanto brutale dei paesi sviluppati (Bin Laden lo hanno inventato, finanziato e supportato gli USA) per un governo esclusivo del mondo, ma la nostra informazione culturale e la nostra stessa cultura di massa ha preso atto, al di là delle semplificazioni mediatiche, che vi è forse una alterità all'uomo occidentale e al cittadino-consumatore, che vi è o vi può essere un tipo di socialità diversa da quella dell'intrattenimento mediatico, delle vacanze in paesi esotici e dei centri commerciali cari alla prosa e all'inventiva di Saramago. Che sotto la narcosi della rivoluzione informatica e del mercato dell'informazione cova e può "rinascere" qualcosa di nuovo, diverso, alternativo che ha il sapore della "rivoluzione". Per ora lo abbiamo chiamato Islam e ciò ha dato vita a una stagione di informazione culturale sulla religione di Maometto, sulla tradizione del sapere islamico, sulla geografia politica e morale di circa ottocento milioni di abitatori del pianeta, ma ha anche aperto il varco a una semplicistica quanto pericolosa interpretazione dell'Evento.
Questa guerra senza fronte, senza confini, senza popoli e nazioni, senza bandiere, inni eroi e medaglie, senza nemici credibili (che forse dovremmo ricercare dentro di noi o nelle contraddizioni del nostro sistema), questa guerra che sarà lunga e che per ora stiamo perdendo ha ingenerato per un attimo come chiave interpretativa quella di uno scontro tra civiltà: la civiltà dell'Islam da un lato e dall'atro… ma questo ancora non ci è dato saperlo. Si tratta di un modello interpretativo dell'Evento del tutto fuorviante, regressivo e difficile da fondare sia storicamente che politicamente (dunque moralmente). L'idea di un confronto tra civiltà (che in mancanza di meglio potrebbe anche far presa) è infatti di per se più fondamentalista del fondamentalismo islamico, non ha nulla di laico, nulla di scientifico e riporta in vita una concezione della storia di marchio ottocentesco che, al pari del nazionalismo, ha fatto il suo tempo (e disastri consistenti).
Oggi, nel mondo nuovo del XXI secolo, non esistono più sistemi (o modelli o blocchi) di civiltà tra loro in competizione; quel che esiste semmai e un crescente pluralismo culturale in seno a un'unica civiltà (se così la vogliamo chiamare) e questa civiltà è quella cosmopolita, della tolleranza, pluralista e aperta che l'emergere della tecnologia, la mobilità-scambio del pensiero e degli esseri umani e la globalizzazione hanno generato e al tempo stesso minacciano. Questa civiltà, intuita e per certi aspetti inventata dalla cultura europea del XVIII secolo, non è né occidentale né orientale, né islamica né cristiana, né strutturalmente democratica né strutturalmente teocratica. Semplicemente è un processo di laicizzazione forzato, di modernizzazione irreversibile che pone agli esseri umani il problema di una coabitazione non solo tra loro, ma anche con i mezzi di distruzione (materiale e morale) che la tecnologia genera e che gli esseri umani non mostrano di saper governare. Questi mezzi di distruzione e autodistruzione non sono solo gli arsenali nucleari o il monopolio delle informazioni (quindi la possibilità della loro manipolazione), ma anche e soprattutto la corsa sfrenata al potere di sfruttamento-distruzione delle risorse umane e naturali, il divario e le molteplici velocità dello sviluppo, il progressivo deperimento dei poteri locali, la crisi dell'organizzazione statuale, il prepotente emergere di poteri sovranazionali e multinazionali liberi da ogni controllo e, in defintiva, estranei alla legalità dalla quale ci sentivamo tutelati e protetti. Dunque più che di uno scontro tra civiltà questo evento sembra lasciarci intravedere una alterità, un che di nuovo (ma anche ignoto) e di diverso ( ma per certi aspetti rivoluzionario) con cui misuraci a partire proprio dal nostro fronte interno.
Quella che rischia di essere la clamorosa vittoria di OLB è il monopolio di una alterità al sistema mondiale così come è (incapace di autoregolarsi) e cioè quello di una offerta "politico-ideologica", una offerta di miti e mitologie antisistema vincente sul vasto mercato delle emozioni e delle aspettative di emancipazione e di vita. In questo caso il fondamentalismo in tutte le sue varianti, lungi dall'essere un fenomeno residuale, un rigurgito del passato remoto, sarebbe un che di assolutamente innovativo e come tale del tutto concorrente ai residuali di una cultura della modernità in pieno declino.


Ma l'idea dello scontro di civiltà non è solo peregrina, è anche pervicace, fa presa e, anche se smentita sotto il profilo teorico e semantico, si sta consolidando nei media e nel loro linguaggio; ha contagiato un po' tutti e reso facile (quanto gracile) la propaganda di guerra e l'interpretazione dell'Evento. Quello a cui assistiamo è l'insorgere di un linguaggio e un insieme di metafore regressive e vagamente medievali. Si è partiti da "giustizia infinita", ma non ci siè fermati a "giustizia durevole". "Civiltà" e "barbarie", "guerra giusta" e "guerra santa", "forze del bene" contro quelle del "male", "punizione" e "giusta vendetta", "difesa della civiltà" e "operazione di giustizia internazionale", "solidarietà con il popolo americano" e "nazione ferità", "missione umanitaria" e "missione di civilizzazione" da un lato; dall'altro "infedeli" e "satanici", "ricchi" e dunque "colpevoli", "atei" e pertanto "peccatori", "fratellanza islamica" e "martiri". Sono questi i mattoni di un sintassi non già della curva nord di San Siro o di ultrà dei ghetti urbani, ma di capi di stato, analisti, politologi, esperti di strategia, persino uomini di cultura. Un festival generalizzato dell'intolleranza e della incultura politica che rischia di trasformare questo evento così drammatico in un intrattenimento (si fa per dire) da piazza e di celarne la vera portata ai nostri occhi. Si tratta di un convoglio semantico che sembra prendere il via dal medioevo senza altra meta che farvi ritorno. E' una miscela di droghe pesanti, un confronto a tutto campo tra modelli di cultura primordiali e rozzi che deprime e scoraggia ogni tentativo di analisi.
Per questo tramite comunicativo si istituisce così una sorta di schizzofrenia narrativa di questa storia istantanea e quotidiana tra il livello tecnologico, freddo, e quello mitico, passionale ed emotivo. Da un lato l'immaginario di sofisticati e innovativi (quindi per definizioni positivi e vincenti) strumenti di guerra e dall'altro la violenza pura senza freni inobitori che la guerra stessa suscita e legittima. L' "operazione chirurgica" dei bombardamenti (che appunto per essere tale colpisce anche ospedali e Crocerossa) e le manifestazioni di piazza, cioè televisive, giornalistiche. Quel che preoccupa è che questo modello elementare di propaganda, con i suoi slogan stereotipi e vagamente irresponsabili, lascia intravedere una mancanza di controllo, di ordine mentale: si procede a tentoni, al buio, ancorati a un incerto passato e a una incerta identità, con un linguaggio a buon mercato e una cultura politica che è giunta a un assai basso grado di temperatura morale. Proprio in presenza di questa rievocazione medioevale delle emozioni politiche, Bin Laden rischia di fare storia davvero, di scrivere lui la nostra storia. Com'è che siamo arrivati a questo punto? Perché il passato non ci insegna nulla di meglio? E come mai è così difficile trovare nei paradigmi della storia fonte di ispirazione per interpretare e governare gli eventi del presente?
Perché forse è proprio la storia intesa come maestra di vita, come arsenale dell'esperienza umana, che in questo nuovo assetto di civiltà fatta di molte culture destinate a convivere, appare una risorsa troppo fragile e perché forse, come dicevo all'inizio, essa ha invertito il suo corso e marcia dal presente al futuro lasciandoci orfani dei modelli e degli insegnamenti di tutto il nostro passato. Rispetto alla accelerazione e alla compressione del tempo di questo XXI secolo e a fronte del diritto di cittadinanza di una pluralità di culture questa grande invenzione della cultura occidentale che è stato il motore e l'interprete della modernità ha forse fatto il suo tempo.

Ecco qua: siamo arrivati forse al punto di fuga, alla via d'uscita dalla tempesta mediatica e della intossicazione dell'informazione "a perdere".
Solo a partire da questo insieme di considerazioni, mi infatti pare possibile, in quanto appassionato storia e storico, abbandonare l'emergenza dell'attualità e della contemporaneità per ricondurre l'evento della guerra del XXI secolo a un ciclo più lungo e a orizzonti più dilatati nel tempo. Prendendo spunto da queste riflessioni e dalle domande in merito che lettori e studenti mi rivolgono, ho deciso di affrontare, nel corso di quest'anno, il tema dei paradigmi di interpretazione del mutamento storico che la cultura europea ha messo a punto nei secoli della modernità. Chi lo sa se questa procedura può offrire qualche chiave interpretativa "forte" alle vicende in corso? Comunque sia, proprio questo testo si configura come la lezione introduttiva di tutto un ciclo di lezioni per l'anno accademico in corso. La funzione stessa della nostra Cattedra di Storia in Network è pienamente rispettata, e spero con soddisfazione del Direttore.


Mi sono chiesto se, per spiegare questi eventi politici nella loro proclamata dimensione planetaria, l'esperienza storica della modernità possa essere di qualche aiuto.
Rinascita, riforme e rivoluzione (questo l'argomento del corso che sto mettendo a fuoco anche grazie all'esercizio al quale mi induce la Cattedra di Storia in network) sono i paradigmi interpretativi del mutamento storico elaborati dalla cultura occidentale nei secoli della modernità (XIV-XIX). Divenuti metafore "forti" e universalmente diffuse, questi paradigmi sono penetrati nel linguaggio comune e nel sentire diffuso sino a costituirsi come mitologie del pensiero politico e come fondamento delle elaborazioni teoriche del potere. La storia di queste metafore è antica e per molti aspetti affascinante.
L'idea di rinascita si connette automaticamente a quella di morte e alla consapevolezza di un mondo, di una civiltà scomparsa per sempre (quella antica) dalle cui ceneri può però risorgerne una nuova dopo una pausa, una vera e propria sospensione-archiviazione del tempo storico. Il Rinascimento fu appunto la rinascita del tempo e della politica e coincise con la fondazione delle Stato e di quel potere sovrano il cui compito era assicurare la giustizia, un giustizia umana e fondata sull'humanitas oltre e al di sopra delle fedi religiose e delle appartenenze etniche.
L'idea di riforma, che certo principia dall'esperienza della Riforma luterana e cioè dalla lotta per una modernizzazione e adeguamento del credo e delle pratiche religiose europee alle mutate esigenze del quadro economico e sociale dei secoli XVI e XVII, è divenuta dominante nel corso del XVIII secolo e ha proclamato la definitva laicizzazione della politica. Gli uomini del Settecento ritenevano infatti che il potere, sovrano e assoluto, dovesse assicurare non solo ordine e giustizia, ma addirittura felicità ai sudditi e che lo stato fosse un agile strumento in grado di rimodellarsi sulle esigenze nuove poste dal moto progressivo della storia. E il secolo dei Lumi fu appunto il secolo delle riforme e della grande modernità.
Infine l'idea di rivoluzione, originariamente desunta dal linguaggio astronomico, ha rappresentato un nuovo modo di percepire il mutamento storico e governarlo: un moto tale da consentire agli degli umani di por mano alla costruzione del proprio futuro mediante rotture radicali e violente con tutti pesi del passato. L'obiettivo del potere e dello stato veniva così fissato non solo nella giustizia e nella necessità di assicurare felicità ai conviventi sotto una unica legge comune, ma soprattutto di garantire ad ogni cittadino il diritto di partecipare alla costruzione e al governo della società futura in una condizione di parità e di eguaglianza e senza mediazioni: la cittadinanza. Lo stato poteva così assumersi il compito di garantire anche lo sviluppo morale e materiale dei suoi cittadini.
Ora, in questo lungo percorso di tempo che è la nostra storia e la storia della modernità, rinascita, riforma e rivoluzione hanno rappresentato i modelli del mutamento storico e segnato le varie velocità del tempo, lo hanno messo in moto e ne hanno fissato i ritmi per poterlo governare. Però pure nelle sostanziali diversità di queste metafore e di questi ritmi, lo scopo del correre del tempo e l'obiettivo finale della storia, è sempre stato quello di una civiltà cosmopolita fondata sulla pace (dunque la tolleranza) e sulla fratellanza universale (dunque sulla pluralità delle culture). Il pensiero e il sentire politico della modernità erano e sono alla continua ricerca di un paradiso di quaggiù e non di lassù. Per questo gli eroi e i martiri della nostra storia sono profondamente umani. Per questo e non per altro la modernità si è imposta come un modello efficiente di civiltà. E oggi è ancora possibile utilizzare questi paradigmi per interpretare e governare il corso del tempo?
L'emergenza tecnologica che caratterizza il XX secolo, il profondo mutamento nel sistema delle comunicazioni umane per effetto dell'accesso alla rete che segna l'avvio del XXI secolo e i processi di integrazione-globalizzazione culturale che ne conseguono, paiono aver archiviato l'uso di queste classiche metafore e propongono interessanti interrogativi.
E' possibile immaginare una rinascita dell'uomo in un'epoca nella quale l'uomo stesso sembra essere un prodotto della manipolazione tecnologica? Quali riforme sono praticabili in una società che assume l'innovazione tecnologica, con i suoi ritmi sempre più accelerati e ingovernabili, come un evento naturale e dunque come un canone dell'ordine e della stabilità? L'idea di una rivoluzione, intesa come rottura violenta e consapevole dell'ordine politico e sociale per la costruzione di un mondo migliore, è praticabile in una civiltà che dispone di sistemi di controllo e repressivi tanto possenti quanto universali? In presenza della crisi da tempo proclamata delle ideologie (e dei valori) quale ruolo compete, nel "mondo nuovo" del XXI secolo, al pensiero e all'impegno politico? E infine, per quanto ci riguarda, a quale modello iscrivere l'insieme di vicende che a partire da ciò che accade in Afghanistn stanno cambiando il volto del mondo?
La paradossale situazione di questa guerra tutta nuova del XXI secolo, la difficoltà di ricorrere all'arsenale concettuale posto in essere dalla modernità per interpretarla e governarla, mi lascino intendere che forse il nostro tempo è quello non delle rinascite, delle riforme e delle rivoluzioni, ma di grandi, misteriose metamorfosi, di mutamenti istantanei, inattesi, casuali, fantastici (anche mostruosi). Insomma abbiamo davvero voltato pagina e la storia ci impone nuove sfide, nuove affascinanti avventure.

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